Una lettera aperta che racconta una situazione complessa che in questo momento molte persone stanno vivendo se hanno un genitore anziano ricoverato per Covid-19.

Cosa accade se ti muore un genitore anziano per Coronavirus

19 marzo 2020: cosa accade quando ti muore un genitore anziano con il Covid-19

Scusatemi, ascoltando l’ennesimo TG, sento il dovere di raccontare gli eventi assurdi e dolorosi della mia famiglia che si trova a dover affrontare e combattere il Covid-19. Avrei preferito vivere tutto come un fatto privato, ma credo sia un dovere condividerlo, non per spaventare la collettività, ma per chiamarla alla responsabilità.

Non è il momento della leggerezza, ma è invece il momento della meditazione, della profondità e della responsabilità verso noi e verso gli altri.

Più o meno tutti i figli di genitori ormai anziani e magari non in buona salute sono preparati alla loro dipartita, che prima o poi avverrà, com’è nella logica della vita.
Ma quello a cui non siamo preparati è tutto quello che può avvenire se questo genitore, entrato in ospedale per altre patologie, contrae il Covid-19.

Mia cognata e le sue sorelle hanno ricoverato Walter, il padre, all’ospedale di questa tranquilla cittadina della provincia italiana, di una florida zona del centro Italia, entroterra adriatico, all’inizio di febbraio.

L’allarme Coronavirus era già presente nella zona, ma ancora sotto controllo, o almeno questa era la percezione dei miei familiari che ricoveravano Walter con difficoltà respiratorie. All’ingresso, quindi, gli viene fatto il tampone che risulta negativo e, visto che l’ospedale era già in crisi di posti, viene sistemato al pronto soccorso come tanti altri pazienti.

In ogni caso e per fortuna le condizioni di salute di Walter nel corso dei giorni migliorano, mentre la situazione per l’ospedale precipita sempre più, quindi decidono di dimetterlo per difenderlo dal Covid-19, anche se i polmoni risultano ancora leggermente compromessi.

Sua moglie prepara la casa per accoglierlo: disinfetta tutto e non fa entrare nessuno per giorni, per difenderlo da eventuali contaminazioni, e questa è stata la fortuna di tutti i miei familiari e di tutta la comunità del loro piccolo paese.

Dopo pochi giorni Walter peggiora e sua moglie ha la febbre. Mia cognata con le sorelle, disperate, attivano il protocollo indicato dalla regione.

L’ambulanza viene a prendere Walter e non può naturalmente permettere alle figlie di stargli vicino.

Lui viene ricoverato, due figlie lo seguono in ospedale mentre la maggiore resta con la mamma a casa.
In ospedale a Walter viene fatto il tampone e le figlie vengono lasciate in un container chiuse per ore, in attesa di avere notizie sul babbo, su cosa fare con la madre rimasta casa. Bussano, battono forte sulla porta per supplicare qualche informazione, ma il personale è talmente impegnato nell’emergenza e nel panico che non possono proprio dare risposte in quel momento.

Dopo ore aprono il container e chiedono alle due figlie se hanno degli effetti personali da dare a Walter.

Loro non hanno nulla, a parte il cellulare e glielo danno per poter così sentire la voce del babbo che ha solo modo di dirgli una cosa: “Vi voglio bene”.

Non si sono più visti. Loro sono tornate a casa dalla madre e dall’altra sorella, nessuno ha detto loro quali accorgimenti usare: gli viene solo indicato di isolare la madre a casa e non dormire da lei. Ma come fare? Come lasciarla sola in quel momento? Oltretutto ognuna delle tre figlie deve rientrare a casa dalle rispettive famiglie, perché questo è ciò che gli è stato detto.

Tornarsene quindi a casa… con l’angoscia di poter essere loro stesse veicolo per i rispettivi mariti e per i figli.

È tutto assurdo e spaventoso: mia cognata rientra a casa e non può neanche avere un abbraccio di conforto da suo marito e dai suoi figli che devono guardarla a distanza protetta da una mascherina, guanti e disinfettante e gli occhi pieni di lacrime.

Quell’abbraccio lei non può ancora averlo neanche oggi che seppelliranno Walter che nessuno di loro ha più potuto sentire e vedere.

Dalla collina dove abitano mia cognata e mio fratello si vede il cimitero, nel loro comune si usa fare il corteo per accompagnare il defunto, solitamente partecipa tutta la comunità. Questo corteo oggi non ci sarà, mia cognata potrà solo vedere passare il furgone sotto casa.

Sua madre è ancora a casa, curata e monitorata da remoto dal medico di base, ha ricevuto la notizia della morte del marito dalle figlie, che glielo hanno dovuto dire con le labbra nascoste dalle mascherine e distanti più di un metro da lei. Senza toccarla, abbracciarla.

Io sono in un’altra città, a 250 km di distanza, sento in continuazione mio fratello cercando parole di consolazione e conforto e posso solo immaginare il dolore di mia cognata e dei miei nipoti, una bambina di 8 anni e suo fratello di 15 anni.

Devono vivere in privato il dolore della morte del nonno, non possono condividerlo con nessuno, neanche con la loro mamma e il loro babbo, si possono solo abbracciare tra loro e quindi mia cognata mi dice che si tengono stretti forte, non si lasciano: è l’unico abbraccio che possono avere.
Oggi alle 10.00 seppelliranno Walter, io non potrò raggiungerli e per stare con mio fratello e mia cognata, per dare loro delle parole di conforto devo fare 2 telefonate, perché non possono passarsi il telefono e devono vivere in stanze separate.

Sono notti che non dormo, con l’angoscia che possano essere stati contagiati anche loro. Ripeto, avrei preferito vivere in privato tutto questo, ma lo condivido, perché sia chiaro cosa ci chiedono in questi giorni quando ci dicono di essere responsabili e stare a casa. Se non riusciamo a farlo per gli altri, facciamolo per noi e per le nostre famiglie.

Sento il dovere di divulgarlo per chiedere sostegno allo Stato per accendere i riflettori sulla situazione di tutti questi piccoli comuni che si trovano nelle zone fortemente colpite, dove sono numerosi gli anziani che vivono da soli.

Nelle metropoli i grandi ospedali sono preparati a lavorare in situazioni di emergenza, anche se questa è veramente una guerra, ma se è già difficile per questi, figuriamoci per gli ospedali minori come quello di questa cittadina di provincia. Per farcela hanno bisogno di sostegni, strutture d’emergenza dove mettere i malati gravi, e di altro personale.

Ma l’aspetto che più ho a cuore di sottolineare è che alla madre di mia cognata ancora non è stato fatto il tampone, anche se fortemente richiesto dai familiari.

E poi non ci sono mascherine a sufficienza per permettere sia al personale sanitario che a tutti quelli che non possono abbandonare i loro cari anziani da soli, di assisterli a casa, mentre sono in quarantena.

Questo, lo ripeto, è l’unico modo che ho per stare con la mia famiglia, chiedere aiuto per tutti loro e per tutti noi, condividendo questa lettera.

Mi rivolgo alle Istituzioni, io sono credente, quindi in questi giorni guardo il crocifisso certa della resurrezione, ma vi prego: siamo stanchi, abbiamo bisogno ora come non mai, di unità, che i governanti tutti ci dimostrino che sono in grado di lavorare per il bene comune, perché non voglio più sentire politici che continuano a fare ognuno la propria eterna campagna elettorale, anche di fronte a tragedie come queste.
Oggi è San Giuseppe, la festa del papà e, come ho detto a mia cognata, questa è la carezza che Walter ha voluto dare alle sue figlie, è il suo modo di fargli arrivare la sua consolazione e dirgli di non piangere.

E noi altri, vi prego, da bravi cittadini responsabili, festeggeremo i nostri papà, ognuno nelle proprie case.
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